La discussione polemica si serve di tutto, di ogni mezzo necessario ad aver ragione. Il polemico solo apparentemente fa leva sulla propria esperienza; il serbatoio da cui attinge le idee è l’inventio, che comunque propone come realtà assoluta e inconfutabile (come se fosse vera e come se ciò che è vero vale in ogni tempo e in ogni luogo); si fa ricorso a una logica fai-da-te; si alza la voce; si alzano le mani. Se un’affermazione non è gradita si formula, in fretta e furia, un’obiezione. Si controbatte con la stessa foga, fino a provocare un’ulteriore obiezione – costruita in condizioni di precarietà emotiva – e via dis-correndo; e non capita mai che uno dei contendenti, perché stremato, desista. Non finisce la lite perché qualcuno alza per primo bandiera bianca. La lite non ha fine. Non può avere una fine: trae linfa vitale da sé stessa. Thomas Hobbes scrisse, a tal proposito, che solo il deus ex machina della razionalità monistica può porre fine alla polemica, alla guerra verbale. Il problema è che l’Uno che irrompe per mettere ordine nello spazio caotico della molteplicità è esso stesso un’inventio, una forma ideale – non reale, reale solo in quanto ideale – del cosmo plurale. Invero, quale cosa è Una?
Soccorre oggi il modus operandi di Facebook: se non sono d’accordo, anzi, se mi sembra di non essere d’accordo, con il mio interlocutore, e non desidero approfondire il discorso, perché troppo impegnativo, si pone fine al dialogo con un atto di gloriosa razionalità… cliccando su “Blocca”. Si vorrebbe, nella vita quotidiana, riprodurre lo stesso modello: riservarsi la possibilità di sopprimere, in modo rapido e indolore, chi non la pensa come noi. Almeno, si evita il conflitto!
Ridurre a falso o ad assurdo il pensiero dell’altro per poi giungere a bannarsi, estingue la relazione stessa: la lite termina per soppressione, non per dimostrazione. Perché se si arrivasse a dimostrare di essere nella ragione, la discussione avrebbe pure un senso. Ma se nessuna ragione argomentativa sgorga dalle viscere della lite verbale che senso ha tutto ciò? Nessuno! E poi, sopprimere il proprio interlocutore non si ripercuote, forse, paradossalmente e disperatamente, su sé stessi? Non si finisce per rimanere da soli, a lottare contro il proprio Ego? Certo, si potrebbe arguire che dall’incompatibile ci si allontani e all’affine ci si avvicini. Riecheggia la dinamica del ciclo cosmico descritto da Empedocle di Agrigento. Poi, chi è esattamente un nostro affine? Come facciamo a saperlo, se è sufficiente una semplice chat notturna su argomenti vaghi a rompere ogni legame? Senza approfondimento e verifica non è affatto dimostrata l’eventuale non affinità. Rimane allo stato potenziale, di eventualità, appunto. Allo stesso modo, non basterà una semplice conversazione pacifica e armoniosa per dimostrare la presenza di affinità.
Si rende necessario non rompere il legame.
Cioè?
Stiamo forse dicendo che la lite è inevitabile?
In generale, quando il pensiero dell’interlocutore non è accettato, o non viene considerato con accortezza, o anche non sia compreso, scatta la molla (esplosiva) della risposta oppositiva. L’effetto: una controffensiva dai tratti marziali. Se la risposta riuscisse a rimanere pacata, al di sotto dell’occhio per occhio, dente per dente, e non vi fosse impatto emotivo travolgente, la cosa, molto probabilmente, finirebbe lì. Ma non si è dei robot. Non si può governare, gestire o padroneggiare l’emotività. La si può solo conoscere. Comprendere nei suoi meccanismi e pertanto alleviare.
NON LE IDEE IN SÉ, MA LE CONSEGUENZE CHE PRODUCONO SUL PIANO EMOTIVO, SONO IN REALTÀ CAUSA DI CONFLITTI.
IL CONFLITTO E, PER CONVERSO, LA SINTONIA SCATURISCONO DALLE POSSIBILI AZIONI/REAZIONI (E-MOZIONI) CHE ORIGINANO DAL MODO IN CUI VIENE RECEPITA/INTERPRETATA UN’IDEA.
Si potrebbe pensare che il parlante provochi intenzionalmente una certa interpretazione; che sappia bene come suscitare emozioni nell’interlocutore. Di persuasori occulti ce ne sono tanti. Qui il gioco del “viene prima l’uovo o la gallina?” non c’entra. È vero, ci si dovrebbe sempre chiedere: come verranno intese le mie idee? Quali conseguenze avrà la mia risposta? Ma stiamo, ora, considerando l’impatto emotivo che una determinata affermazione/risposta induce nell’interlocutore. Cioè, si sta sottolineando il modo con cui viene recepito un messaggio, indipendentemente dalle intenzioni altrui. Non è in questione la “manipolazione del pensiero” ma la capacità di rispondere adeguatamente, indipendentemente dalle intenzioni altrui (se intenzioni malvagie colgono nel segno significa che non si è ancora nell’autonomia, ma nella dipendenza).
Sarebbe senz’altro vantaggioso impedire allo stato emotivo di soggiogare e distorcere la relazione interlocutoria, eppure come mai lo stato emotivo ha questo potere, mentre la ragione no? Semplice: non esiste la ragion pura. Non esiste con riferimento all’essere umano.
E oggi che la rete è divenuta lo spazio di comunicazione per eccellenza, a livello globale, con la prospettiva di sottrarre ulteriore terreno agli strumenti mediatici tradizionali (televisione, radio, carta stampata) sarebbe il caso di porre al centro dell’attenzione non già la razionalità, che pure ha le sue funzioni e le sue propaggini, ma l’emotività, per comprendere e disciplinare anzitutto questa, attraverso la strutturazione di un pensiero plurale incline all’esercizio, alla progettualità, alla meditazione e alla relazionalità. La nuova società del controllo psicopolitico – con internet e gli smartphone – ci spinge continuamente a interagire con gli altri, a esprimere le nostre opinioni e a rivelare sogni e desideri, in un contesto che si regge, per dirla con le parole di Byung-Chul Han, sull’accumulo dei big data e sul confronto verbale istantaneo, fomentato dal congegno ad hoc dei social network, che inducono a denudarsi per la mera sensazione di sperimentare posizioni, idee e credenze altrui (in tutti i campi, dalla religione all’economia, dalle scienze al semplice svago), tutto finché chat e connessione perdurano, salvo poi lasciare un senso di vuoto, di insoddisfazione e di disgregazione: dall’Uno ai Molti, senza alcuna centratura in sé stessi e stabilità.